Quarta domenica di Pasqua 2023 (Giovanni 10,1-10)
“Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”.
“La vita è bella”
Ha la freschezza, bellezza e sapienza di una parabola il film di Benigni La vita è bella. Ilare e giocoso, un ebreo è deportato insieme alla sua famiglia in un lager nazista. Le strazianti scene delle maleodoranti baracche, la sistematica persecuzione di quanti avevano come unica colpa il fatto di non appartenere alla razza ariana e tutti gli orrori dell’Olocausto vengono mascherati da un papà che vuole offrire a suo figlio una vita bella, anche nelle situazioni più disumane. Vuole far credere al figlio che quanto capita in quel luogo fa parte di un bellissimo gioco, che terminerà con un grande premio per chi sarà capace di nascondersi bene e di non piagnucolare di fronte al male.
Bella è la vita per chi ha una fede, per chi crede nella Provvidenza, per chi fa di tutto perché il male non trionfi sul bene.
Dio vide che era bello e buono quanto andava creando nei sette “periodi” (l’ebraico si presta a questa traduzione) della storia delle origini. Cristo – che si presenta come pastore “tob” (aggettivo ebraico che significa bello e buono) – dice di essere venuto al mondo perché gli uomini “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. E lo Spirito Santo è quell’Amore che vivifica e crea continuamente cose belle e buone, spirando come vento che “soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va” (Giovanni 3,8). Ecco la Trinità all’opera per darci una vita bella, sempre, ma in particolare ogni volta che una coppia decide di dare vita alla vita, generando un figlio.
Prima che la mamma se ne renda conto, una creatura palpita nel suo grembo. È già perfetta in sé. Dopo dodici ore dal concepimento, ha già in sé tutto quello che “la farà essere”, per tutta la sua vita. Come non amare questa creatura, stupenda fin dall’inizio della sua avventura unica, irripetibile, indicibilmente bella, con le sue luci e con quelle ombre che esaltano ancora di più la luce?
Un bimbo: mistero che commuove chi guarda con il cuore e vede in quell’essere bisognoso di tutti e di tutto un dono che Dio fa all’umanità, perché non invecchi e perché si rinnovi grazie al sogno che il Signore regala a ogni culla. E restargli accanto, amarlo, dargli anticipi di fiducia, con la certezza che egli nella vita non farà altro che sviluppare, innanzitutto, quello che ha ricevuto in famiglia. Amarlo per ciò che è, con la sua grandezza e con quei limiti che mostra subito, fin dal primo vagito. Amarlo perché ha bisogno dell’affetto di papà e mamma, tanto quanto del nutrimento.
I genitori vedono sempre belli i loro figli. Se è spontaneo amarli, è bello imparare da loro ad amare, con quella disarmante semplicità che fece dire a Cristo: “In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 18,3).
Una vita abbondante e bella per tutti?
Sto scrivendo questa omelia dal Camerun, dove mi trovo per un corso ai missionari di questo Paese e a quelli del Ciad. Per tre anni il Covid mi aveva impedito di portare avanti la mia missione nel Continente nero. Ora, il percorrere questa terra per sentieri che sono greti di fiumi, vedendo quella miseria che già cinquant’anni fa mi faceva piangere, sono triste vedendo come si fa presto, stando in Europa, ad abituarsi ai mali del mondo, a diventare colpevoli – dice papa Francesco – di una “indifferenza fratricida”, a non rendersi conto che anche questa gente avrebbe diritto a godere della vita, una vita “in abbondanza”. Mi ha colpito quello che mi disse il cardinal Agrè, della Costa d’Avorio: “Voi vedete noi africani sempre sorridenti, ma non conoscete la paura e il male che ci attanagliano lo stomaco”.
Mentre viaggiavo, in questi giorni, riandavo ai ricordi africani, iniziati nel 1973. E in quelle strade che mi facevano sobbalzare (oltre a essere finito in un fosso, senza spiacevoli conseguenze), vedendo che qualche progresso c’è stato per i ricchi mentre i poveri rimangono poveri, continuavo a ripetere, come un mantra: “Fino a quando, Dio, fino a quando? Non sei Tu il Buon Pastore anche di questo gregge che pure continua a lodarti, in quelle interminabili messe domenicali dove i fedeli sembrano aspettarsi solo la grazia di poter lodare, cantare e danzare, per dimostrare la propria gratitudine a Te, Dio della vita?
Via, verità, vita, porta… e – perché no? – fiume
Cristo, nel Vangelo odierno, si presenta come la porta attraverso la quale tutte le pecore devono passare. Questo linguaggio dice ben poco alla nostra gente. Forse, al concetto che Cristo è via, verità e vita, potrebbe essere affiancata l’immagine del fiume. La prendo dal poeta Ungaretti. Per lui la strada è “gomitolo”, “groviglio”, “cammino senza conclusione”; il fiume è invece una placida via che dalla sorgente armoniosamente anela alla foce per rigenerare vita. Là, inizio e fine, Alfa e Omega, vita e morte si abbracciano e tendono all’Assoluto. Cielo e Terra s’incontrano nella perfetta armonia del ricongiungimento degli estremi.
E nella contemplazione del placido scorrere delle acque del fiume, sentire il bisogno di perdersi nel tutto, tuffarsi nelle onde, lasciarsi trascinare dalla corrente mentre il cuore anela a perdersi nell’umanità, negli altri, nell’Altro, l’Eternamente Presente. Inchinarsi dinanzi all’Infinitamente Grande. Prostrarsi nel Tempio dell’Assoluto, come fanno i beduini nel deserto. O come fanno i monaci, gli eremiti, Charles de Foucauld, Teilhard de Chardin e tanti, tanti altri che, innamorati di Cristo, hanno scoperto il senso e il gusto della vita. E hanno elevato il loro canto al più bello dei figli dell’uomo, come ha fatto anche Ungaretti in un momento di grazia:
“Cristo, pensoso palpito, / astro incarnato nell’umane tenebre, / fratello che t’immoli / perennemente per riedificare / umanamente l’uomo, / Santo Santo che soffri, / maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, / Santo, Santo che soffri / per liberare dalla morte i morti / e sorreggere noi infelici vivi; / d’un pianto solo mio non piango più. / Ecco, Ti chiamo, Santo, / Santo, Santo che soffri”.
Si abbozza così il paradosso: in Cristo, il Santo che soffre, nel Dio innalzato su di una croce, nelle sue braccia protese verso tutta l’umanità, nel mio rinnovato pianto di questi giorni in Camerun, si può scoprire l’amore alla vita. Additando una croce non intendo tanto proclamare un ideale di rinunce, mortificazioni, sacrifici (anche se, in misura moderata, fanno bene all’anima e al corpo), bensì gridare che la croce è il “sì” alla vita, quale espressione della bellezza di essere per tutti un dono. Quale supplica al Signore perché tutti possano godere del dono della vita. E vita in abbondanza.
Valentino Salvoldi
Ho letto quest’omelia, dopo aver ascoltato l’audio (come sarebbe bello se anche gli audio fossero pubblicati sul sito!). Don Valentino, GRAZIE PER LE TUE LACRIME! Grazie per il coraggio, che èètuo, di mettere a nudo i tuoi sentimenti! Sentire un missionario che dice che ogni minuto 12 (DODICI) bambini muoiono di fame, fa male, ma sentirlo singhiozzare durante un’omelia, mentre confida che la sua preghiera era «Fino a quando, Signore»… lacera il cuore, come quel Velo del Tempio di Gerusalemme, luogo certo sacro, ma anche luogo in cui i «pii» del tempo si sentivano a posto, si squarcia in due dopo il grido di Gesù che squarcia i secoli… sentire un missionario, te, mio carissimo don Valentino, singhiozzare… e dire quelle parole forti di Papa Francesco… è stato un dono d’amore dei più preziosi che ho ricevuto!
Grazie.
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