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Gli encomiabili dubbi di Tommaso

Seconda domenica di Pasqua 2023

(Festa della Divina Misericordia)

(Giovanni 20,19-31)

Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi…

io non credo

Il gemello di Cristo

Nella maggior parte delle tribù africane, se un ragazzo rivolgendosi alla zia non la chiama “mamma”, sicuramente riceve uno schiaffo, assieme alla correzione: “Sono tua madre”. Il cugino di primo grado, inoltre, deve essere rigorosamente chiamato “fratello”. Anche qui, in Italia, quando gli africani incontrano persone della stessa tribù, non esitano a ritenerli “fratelli”. Ciò premesso, non dovrebbe creare problemi il fatto che nel Vangelo i cugini di Gesù siano chiamati fratelli. E non c’è bisogno di “insultare” San Giuseppe inventando la storia che fosse vedovo, e avesse già quattro figli quando sposò Maria. Quella della vedovanza è una leggenda tratta dai Vangeli apocrifi. Inoltre, è un’offesa sia a Giuseppe che a Maria ritenerli vergini per il fatto che lo sposo fosse anziano…

Nel Vangelo, tante parole hanno un significato simbolico, o diverso da quello che oggi esprimono per noi. È il caso di San Tommaso, che per due volte il quarto Vangelo qualifica come “Didimo”, cioè “gemello”.

Gemello di chi? Di Gesù, naturalmente, tanto i due si assomigliavano forse nel volto, probabilmente nel carattere e senz’altro nel desiderio dell’apostolo di assomigliare in tutto al Maestro. Gemello-simile a Cristo e… a ciascuno di noi, grandi nei nostri dubbi e nel nostro bisogno di un’esperienza forte, per fare del Maestro il centro della nostra vita e del dubbio un’occasione per approfondire la fede.

Troviamo per la prima volta Tommaso nel brano in cui Gesù dice chiaramente ai discepoli che Lazzaro è morto. L’apostolo afferma categoricamente: “Andiamo anche noi a morire con lui!” (Giovanni 11,16). Rivediamo Tommaso dopo la Risurrezione. Egli non è con gli Undici al primo sorprendente incontro con il Risorto, che entra nel Cenacolo a porte chiuse. Per il discepolo incredulo, Gesù ritorna dopo otto giorni. Soffia sugli apostoli per comunicare lo Spirito: vento impetuoso, sconvolgente silenzio, soffio leggero leggero come quello che porta Elia verso l’Oreb… Spirito comunicato per il perdono dei peccati e per coinvolgere Tommaso nella professione di fede.

L’apostolo aveva precedentemente dichiarato: Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi… io non credo”. Cristo si ritrae da chi richiede una prova scientifica per credere; non si rivela a chi lo accosta con una mentalità puramente materialistica, perché la fede si pone a un altro livello. Dimostrare Dio equivarrebbe a renderlo piccolo come il nostro cervello: non si dimostra l’amore, ma solo lo si intuisce e lo si conosce nei suoi effetti. L’Amore fa però anche delle eccezioni: a Tommaso dà un segno, invitandolo a toccare le sue ferite: Non essere incredulo, ma credente!”.

L’imperativo sta a indicare che per essere credenti occorre cambiare il proprio atteggiamento nei confronti del soprannaturale: passare cioè dal livello della ricerca di una prova a quello dell’abbandono. Non voler dimostrare, ma affidarsi a Dio, traendo dalla preghiera la forza per vincere l’incredulità dopo aver vissuto – in un momento privilegiato – un’esperienza di fede. Per credere bisogna supplicare Gesù di concederci la grazia di diventare suoi “didimi”: suoi gemelli.

Mio Signore e mio Dio!”:stupenda espressione di fede, che riassume il credo primitivo nel Cristo, accettato come Signore e come Dio. Un credo che, nella sua semplicità, è fonte di salvezza (cfr. Romani 10,9).

Tommaso – dapprima incredulo – si converte e diventa modello di coloro che, avendo visto, devono testimoniare la Risurrezione. A tutti comunque, specialmente a quanti credono senza vedere, è riservata una particolare benedizione: Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Dopo la Risurrezione, la nostra fede non si basa più sulla visione del Risorto, ma sulla testimonianza di persone per le quali Cristo ha pregato nell’Ultima Cena: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola” (Giovanni 17,20).

Mio Signore e mio Dio!”

Interessante, intelligente e bella la richiesta di San Tommaso di mettere il suo dito nel posto dei chiodi e la mano nel costato di Cristo. Chi sta là dove il corpo di Gesù sanguina, chi è presente sui vari Calvari della terra – pronto a soccorrere quanti sono nel bisogno –, chi tocca con mano che cosa significhi soffrire moralmente e fisicamente, riceve il dono di ripetere la sublime espressione di fede: “Mio Signore e mio Dio!”.
Tutti possono giungere all’esperienza di fede, in qualsiasi situazione, ma è innegabile – e i fatti lo dimostrano abbondantemente – che quanti vivono in terra di missione, a contatto con malattie, sofferenza e morte a causa della fame, sviluppano doti e qualità non sempre presenti in chi conduce un’esistenza “normale”, priva di grandi sofferenze e di intensi coinvolgimenti emotivi. Molti cristiani vanno ripetendo che i missionari hanno una marcia in più – nel campo della fede – rispetto a chi non vive la marginalità, non vede il mondo dalle periferie, non mette il dito nel posto dei chiodi.
Cristo – dice l’autore della Lettera agli Ebrei – imparò dal dolore che cosa significhi essere uomo, apprese l’obbedienza, imparò la misericordia. 

Sanati dalle piaghe di Cristo

“Le piaghe di Gesù sono scandalo per la fede, ma sono anche la verifica della fede. Per questo nel corpo di Cristo risorto le piaghe non scompaiono, rimangono, perché quelle piaghe sono il segno permanente dell’amore di Dio per noi, e sono indispensabili per credere in Dio. Non per credere che Dio esiste, ma per credere che Dio è amore, misericordia, fedeltà. San Pietro, riprendendo Isaia, scrive ai cristiani: ‘Dalle sue piaghe siete stati guariti’”.

Così si esprime papa Francesco, commentando il brano che stiamo analizzando, tratto dal penultimo capitolo del Vangelo di Giovanni. Egli si rifà ai suoi predecessori, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, che hanno insegnato al mondo la bellezza di nasconderci nelle piaghe di Cristo, per sperimentarne la misericordia. Questo magistero dei papi è stato preparato dal “magistero dei poveri”, dagli scritti e dagli insegnamenti di tre grandi suore: Santa Teresa di Gesù Bambino, Santa Faustina e la Beata Madre Speranza, di origine spagnola e sepolta a Collevalenza. Tre donne rese grandi dalla loro familiarità con le meditazioni sulla passione, morte e risurrezione di Gesù. Grandi come Maria di Magdala, la Veronica e le donne che sono corse al sepolcro per imbalsamare il corpo di Gesù e da Lui inviate ai “fratelli”, agli Undici barricati nel Cenacolo. A essi portano lo “Shalom” del Risorto: la pace che sconfigge le incredulità degli apostoli, i dubbi di Tommaso detto Didimo, la paura di affrontare quel Sinedrio che, dopo aver decretato la morte del Giusto, condannerà a morte anche i Dodici. Morte che profuma di risurrezione. 

                                                            Valentino Salvoldi

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