Forte grido che scende dalla croce:
“Diventa Cireneo della gioia!”
Vietato parcheggiare sul Calvario
Il vescovo Tonino Bello, di fronte a un crocifisso posto in sagrestia in attesa di una sistemazione definitiva, vedendo un cartoncino con la scritta “collocazione provvisoria”, pregò il parroco di non rimuovere il crocifisso di lì, da quella sistemazione transitoria che ben esprimeva il significato della croce: il Calvario non è un luogo in cui si possa parcheggiare. Dopo tre ore c’è la rimozione forzata”…
Il crocifisso è lì, provvisoriamente, non per ricordarci la morte, ma per accrescere la nostra fede nella risurrezione. È lì, con quelle braccia spalancate, per accogliere tutti; per darci la certezza che è fonte di perfetta pace perdonare sempre e non escludere alcuno dal nostro amore.
Il crocifisso è lì non come simbolo di morte, ma di amore: quelle braccia aperte per abbracciare tutti ci dicono quanto grande sia l’amore di Gesù per questa umanità.
E sulla croce Gesù tace: è l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha diffuso nel mondo il messaggio dell’uguaglianza fra tutti gli uomini. Quella rivoluzione che ha cambiato il mondo sia perché Gesù ci ha spalancato gli orizzonti del vero amore, sia perché ha insegnato ad amare tutti, compresi i nemici. Ecco Cristo che dalla croce si rivolge al Padre pregandolo per i suoi assassini e giustificandoli: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Luca 23,34). E grazie all’insegnamento e all’esempio di Gesù, il perdono diventa il profumo del Cristianesimo. Nessuna religione, infatti, insegna ad amare i nemici, a perdonare “settanta volte sette”, cioè sempre.
Dalla croce, Gesù attira i nostri sguardi verso di Lui che ci invita ad accogliere il suo amore, a lasciarci da Lui amare e a non parcheggiare sul Calvario, ma da lì partire per proclamare a tutti che Egli è stato ammazzato perché parlava d’amore, perché suscitava invidia per il bene che operava e perché è venuto a rivelarci che Dio è un Padre che perdona. Un Dio il cui nome è Misericordia.
Cristo: tormento ed estasi
Da oltre cinquant’anni esercito il mio ministero in Africa e Asia, cercando di portare la mia testimonianza di fede in quel Cristo che per me è estasi e tormento. È estasi perché dà un senso, un gusto e una bellezza alla mia vita. In Africa, in mezzo a tanta miseria, ho sperimentato che Cristo è la ricchezza dei poveri che, grazie alla loro fede – quelli che sopravvivono –, sanno danzare per esprimere la gioia di vivere. Nei Paesi asiatici ho sofferto vedendo come chi non crede abbia una vita miserabile e come proprio tanti giovani commettano suicidio, perché senza Dio la vita è assurda. Quindi, pensando al dono della fede, Cristo è diventato la mia estasi. Ma è anche tormento. Ho sperimentato che essere sacerdote non consiste nel mettersi una divisa fuori, ma un tormento interno: il tormento di non essere santo. Il tormento di sapere che esistono cinque miliardi di persone che ancora non conoscono Cristo. Il tormento di vedere le nostre chiese sempre più vuote e tanti cristiani che vivono come se Dio non esistesse.
Che cosa possiamo fare per queste persone? Guardare alla croce pregando: “Abbi pietà del mondo, Signore!”.
La croce non si pialla, si adora
Alessandro Manzoni, quando ne I promessi sposi parla dell’incontro tra l’Innominato e il cardinale Borromeo, riguardo a quest’ultimo scrive queste parole sacrosante: “Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impegno, del quale ognuno renderà conto, cominciò fin da fanciullo a pensare come render la sua utile e santa”.
Parole sacrosante, ho detto. Non c’è angolo della terra in cui alla bellezza e alla gioia, ovunque presenti, siano disgiunte la bruttezza e il dolore. Dio è Padre di tutti e non fa distinzione di persone. Ci dona quel tanto di luce e bontà per aiutarci a credere nell’Amore. Permette tenebre e cattiveria per lasciarci liberi di non credere e di rifiutarlo. Vuole salvarci a ogni costo… Ci manda suo Figlio che non ci dà una spiegazione del dolore, ma viene a prenderlo su di sé e a garantirci che non siamo soli nel momento della sofferenza. È Lui che si fa Cireneo della gioia nell’aiutarci a portare dignitosamente la nostra croce.
Ci insegna che la croce non si pialla, si adora. Prendendola sulle nostre spalle, pregando, essa diventa un potente mezzo per dilatare i nostri orizzonti, per farci crescere nell’amore e aiutarci a capire il senso del vivere e del morire. A capire – perlomeno parzialmente – i misteri della fede. Quando incontro persone che faticano a credere in Dio non faccio altro che ripetere: “Ama e capirai”.
“Osanna” al Risorto
Siamo entrati nella Settimana Santa. Con gli abitanti di Gerusalemme corriamo incontro a Cristo con rami di palma, cantando: “Osanna!”. Questa parola, prima di esprimere la lode a Colui che viene nel nome del Signore, ha un significato più specifico. In ebraico, “Osanna” significa: “Aiutaci, salvaci”; è la forma abbreviata dell’aramaico che significa: “Salvaci, Salvatore”. Invochiamo l’aiuto del Signore per noi, per quanti amiamo e per il mondo intero. E in particolare, la nostra supplica si rivolge a Dio perché abbia misericordia dell’umanità e si lasci commuovere da quella selva di croci che continuamente si dirige verso il Calvario. Pensiamo ai settanta Paesi che sono in guerra. Pensiamo ai dodici bambini che ogni minuto muoiono di fame. 17.000 ogni giorno. Non sono statistiche: sono persone…
Ricordiamoci però che quando la Chiesa parla di questa realtà, quando parla della morte, non lo fa con l’intento di renderci tristi come quelli che non hanno una speranza, ma per farci innamorare della vita. Siccome anche noi possiamo morire in ogni momento, non aspettiamo che sia troppo tardi per manifestare il nostro amore a chi ci sta accanto. Non rimandiamo a domani il bene che possiamo fare oggi.
Quanto a me, poi, mentre parlo con dolore dei bambini che muoiono di fame, metto in evidenza la grandezza di tante donne africane che seppelliscono i loro figli con una fede che – direbbe Cristo – sposta le montagne.
Da anni vado ripetendo un’esperienza che mi è capitata in Nigeria. Una donna stava coprendo con la rossa terra il corpo di suo figlio, Kainde, morto per fame a cinque anni. Le chiesi chi le desse tanta forza nel compiere un rito così straziante che faceva stare male me, prete che invano, con l’aiuto di un’infermiera, avevo cercato di salvare quel piccolo con una flebo. In quel corpo consumato dalla fame, non eravamo riusciti a trovare una vena. E quella madre, senza versare una lacrima, mi rispose: “Padre, se non avessi la fede… Ma io credo. E ringrazio voi missionari che ci avete portato Cristo. Lui basta a riempire la mia vita”.
Mentre chi non ha fede di fronte al dolore rischia d’impazzire, chi ha il dono di credere, nella sofferenza – intesa alla luce di Cristo – può raggiungere vette sublimi di santità, mentre cresce grandemente in umanità. La fede opera il miracolo: non ci viene tolta la sofferenza, ma ne scopriamo il senso.
Aggrappati a Cristo comprendiamo che Egli non è venuto a cancellare il dolore, ma a prenderlo su di sé per trasfigurarlo, per infondervi qualche cosa di divino, per trasformarlo in un trampolino di lancio verso l’eternità, per dare la forza – e spesso anche la gioia – di continuare a vivere.
Concludo queste riflessioni con una immagine che spesso ritorna nei miei sogni notturni. Mi sento attratto da un grido che scende dalla croce dove è appeso Gesù, simbolo di tutti i sofferenti della terra. Il suo dolore mi fa stare male e io cerco di schiodarlo dalla croce, ma Lui rifiuta il mio intervento. Mi dice che devo continuare a percorrere i tanti angoli della terra per dire a tutti che sulla croce c’è il Figlio di Dio che sta morendo. Egli vuole che tutti assieme collaboriamo per diventare Cirenei della gioia e, dopo la sua morte, depositarlo dalla croce, metterlo in un sepolcro nuovo e attendere la risurrezione: la sua e la nostra. E questa avverrà perché una tomba è troppo piccola per contenere il nostro amore. Risorgeremo.
Valentino Salvoldi