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SETE DI LUCE

IV domenica di Quaresima

Anno A 2023 (Giovanni 9,1-41)

“Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”

Luce, immagine di Dio

La prima frase pronunciata da Dio Padre è: “Sia la luce!” (Genesi 1,3). Cristo si è proclamato luce del mondo. E Lo Spirito Santo è la luce che guida i nostri passi sulle vie della giustizia, della pace e dell’amore.

La luce è il simbolo universale della divinità, è quell’elemento che dopo il caos delle tenebre originarie dà un ordine, un’armonia all’universo. La luce è un principio fondamentale delle antiche religioni come quella egizia, persiana e babilonese. Simboleggia la vita, la trascendenza di Dio e la sua presenza in noi: luce che ci avvolge, ci riscalda, ci pervade e ci rivela. Secondo Dante, Dio è “luce intellettual, piena d’amore”.

La luce, poi, è simbolo della fede: è un rimando alla capacità di vedere. Essa rende possibile il nostro cammino, pur sempre oscurato e reso incerto da tante cecità nei momenti di buio, fino a che arriveremo alla contemplazione. Fino a quando vedremo Dio: con la morte ci sarà tolto per sempre il fango che è sui nostri occhi (cfr. Giovanni 9,6).

Per questi motivi, l’evangelista Marco parla delle guarigioni dei ciechi da parte di Gesù. Al capitolo 8 (22-26) descrive la guarigione del cieco di Betsaida. Gesùprende il cieco per mano e lo conduce fuori dal villaggio (simbolo di chiusura e luogo di peccato; luogo in cui una persona è schiacciata dalla tradizione e dai conformismi). Conducendolo “fuori”, Gesù guida il cieco (gli apostoli, la comunità, tutti noi…) verso la libertà e la fede.

Come al cieco di Betsaida, Gesù ci apre gli occhi per indicarci un cammino e per rivelarci le nostre potenzialità, ma non ci spiana la via togliendoci gli ostacoli. Ci indica invece il sentiero del Calvario là dove, vedendo come Cristo muore, assieme al centurione (pagano) pronunceremo il nostro atto di fede: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (cfr. Marco 15,39).

Marco parla poi della guarigione diBartimeo (10,46-52), mendicante cieco che, seduto ai margini della strada, grida: “Gesù, abbi pietà di me!” (frase che dovremmo continuamente ripetere, come un mantra). È zittito: la gente non sempre aiuta a cercare la verità. Grida allora più forte. È cosciente che quello è il suo “Kairos”, il suo momento di grazia. Chiede a Gesù di poter vedere. Gesù sonda le sue intenzioni. E il cieco recupera la vista, come se il miracolo l’avesse compiuto lui stesso che si sente elogiato dal Signore: “La tua fede ti ha salvato”.

La guarigione del cieco nato

Dopo la celebrazione nel Tempio di Gerusalemmedella festa di Sukkot (o delle capanne) – festa autunnale nella quale si invocava l’acqua come dono di Dio, come elemento vivificante per la terra e gli esseri viventi – Gesù vede un uomo colpito dalla cecità fin dalla sua nascita. I discepoli chiedono al Maestro a chi sia da imputare il peccato che causò la cecità di quell’uomo

Gesù rovescia la logica secondo cui la malattia è interpretata come castigo divino. In quella infermità vede il campo in cui porre il seme della parola di Dio, “perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Tutto il racconto è imperniato sul senso della vista, sull’illusione di vedere e sapere, mentre in verità non si vede e non si conosce nulla.  

Gesù compie un gesto di cura, un intervento terapeutico: impasta della polvere con la sua saliva e la spalma sugli occhi del cieco. In tal modo ripete il gesto con cui Dio ha creato Adam, plasmandolo con la polvere del suolo (cfr. Genesi 2,7).

Ai farisei – gli osservanti esperti della Torah di Mosè – non interessa capire il senso di quel miracolo, ma accusare Gesù che curando il cieco nel giorno di sabato, infrangendo la Legge, va condannato.

Il Maestro non si preoccupa delle critiche di coloro che, presumendo di vedere, sono più ciechi del cieco nato. Si preoccupa piuttosto di colui che, guarito, viene cacciato dalla sinagoga. Va a cercarlo per interrogarlo sulla sua fede, e ha la gioia di sentirlo esclamare: “Credo, Signore!”, attribuendo a Gesù il titolo di Kyrios, Signore-Dio.

Gli ultimi versetti del capitolo sono densi di significato. Gesù dice: “È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”. L’essere ciechi, qui, si riferisce alla situazione di coloro che non vogliono riconoscere il bene e il male presente in questa umanità. Banalizzano tutto. Non assumono il male su di loro per espiarlo, anzi, reputano come male quello che altri compiono come un bene. Questo è giudicato un gravissimo peccato contro lo Spirito Santo. Peccato che non sarà perdonato – dice Gesù – perché compiuto da persone che vedono il male là dove c’è il bene. Persone che hanno giudicato Cristo indemoniato, mentre stava scacciando i demoni…

“Aumenta, Signore, la mia fede”

Siamo tutti mendicanti ciechi. Andiamo interrogando il marciapiede con il bastone bianco. Ci salviamo se non ci stanchiamo di ripetere: “Signore, io credo, ma aumenta la mia fede!” (cfr. Marco 9,24). E questa ci verrà data e aumenterà se la preghiera diverrà il respiro della nostra vita. Se desidereremo Dio con la stessa intensità con la quale si brama una boccata d’aria dopo essere stati sott’acqua con il rischio morire annegati.


Dovremmo chiedere il dono della fede tenendo presente questo aneddoto.

Alla fine della Seconda guerra mondiale gli ebrei, dispersi in tante parti dell’Occidente, possono tornare in Palestina. Una famiglia, provata dalla povertà, mette poche cose essenziali su una piccola barca e si dirige verso la terra dei sogni, quella terra tanto promessa. Un’improvvisa bufera scaraventa contro gli scogli l’imbarcazione, che si spezza come un fuscello. Annega prima il giovane figlio e subito dopo la madre. Il papà riesce ad aggrapparsi agli scogli. È flagellato dalle onde. Gli sanguinano le mani. Sente venire meno le forze e teme imminente la morte. Volge gli occhi al cielo e grida: “Signore, mi hai rubato il figlio. Mi hai rubato la moglie. Ma non ti permetto di rubarmi la fede”.


La fede è dono e vita. È dono: dipende da Dio, che fa il primo passo verso di noi, domandandoci se vogliamo aumentare la nostra gioia, stando aggrappati a Lui. È vita: dipende da ciascuno di noi accettare il dono, valorizzarlo, proporlo agli altri: “Quel Dio che creò te senza di te, non salverà te senza di te” (Sant’Agostino). Dono e vita a noi offerti, perché la nostra gioia sia piena (cfr. Giovanni 15,11).

                                                                 Valentino Salvoldi

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