IV domenica anno A 2023
(Matteo 5, 1-12) |
Beato o disgraziato?
Chi di noi, umanamente parlando, desidera diventare povero? Chi gioisce se è insultato, perseguitato, calunniato? Chi si reputa beato nell’afflizione?
C’è chi sottolinea la paradossalità delle proposte di Gesù, non sempre messe in pratica alla lettera neppure da Lui. Ad esempio, Egli invita a essere “miti” e a porgere l’altra guancia, ma quando durante la passione il soldato lo colpisce, Gesù lo sfida: “Perché mi percuoti?” (Giovanni 18,23). Altri giudicano le Beatitudini – compendio di tutto l’insegnamento di Cristo – il discorso più mistificatorio della storia: “Tutte le religioni – dicono – hanno un aspetto consolatorio a buon mercato, ma il Cristianesimo è addirittura ‘oppio dei popoli’”.
Gran parte di queste critiche derivano dal fatto che ai termini adoperati nel testo evangelico è stato dato un significato che non hanno nella lingua e nella mentalità orientale. Inoltre questo brano è stato letto in modo riduttivo, sganciato dal messaggio integrale di Cristo. Il discorso non è stato considerato cioè nella logica generale del Vangelo che è un invito a godere la vita nella sua pienezza, in un Regno che è già qui sulla terra. Il messaggio del Maestro è stato ritenuto come una promessa consolatoria riservata ai più sfortunati della terra, in prospettiva della vita futura.
Gesù dice:“Beati i poveri per lo spirito. Beati i poveri in virtù dello spirito…”. È in questo senso che va intesa la frase evangelica di Matteo. La povertà in sé – quella sociologica – non è una beatitudine, anzi è una disgrazia. È compito della comunità dei credenti togliere i poveri dalla loro condizione. Le cause della povertà vanno eliminate, come vanno rifiutate le frasi del tipo: “Voi soffrite qui, ma godrete nell’altra vita”.
Per lo spirito: non si tratta necessariamente dello Spirito Santo, tanto meno dello spirito impuro, ma della forza interiore che ha il credente.Poveri per lo spirito: coloro cioè che liberamente scelgono la povertà, per assumere volontariamente la condizione di povero. La povertà materiale non è elogiata. Qui, anzi, c’è un invito affinché i cristiani si uniscano nella lotta per eliminarne le cause. Grazie alla condivisione dei beni – oltre all’eliminazione degli sfruttatori – tutti possono diventare “signori”, cioè entrare nella categoria di chi, avendo dei beni materiali, li fa circolare a vantaggio di tutti.
Inteso così, questo versetto non è più l’oppio dei popoli, ma l’adrenalina dei popoli: diventa quel fermento che porta alla vera rivoluzione dell’amore, perché ci aiuta a passare dalla tolleranza alla solidarietà, verso la convivialità. Su quel monte – sogna il profeta Isaia – il Signore preparerà un banchetto per tutti i popoli. A questo siamo chiamati, senza mistificazioni.
Povertà: la prima delle Beatitudini
È la condizione indispensabile per avere il centuplo qui, sulla terra. È la base di ogni altra beatitudine. È la capacità di ricevere in sé Dio e gli altri, che diventano la vera ricchezza. Ciò che il testo italiano esprime con: “Beati i poveri in spirito”, nella traduzione greca acquista questo significato: “Beati quelli che lo Spirito rende poveri”. È Lui, lo Spirito d’Amore, che ci aiuta a spogliarci di noi stessi, per fare posto in noi a Dio e agli altri. Essere ricchi di Dio. Trovare in Lui la perfetta beatitudine.
Per questo Gesù comanda ai suoi discepoli di liberarsi di tutto, per possedere il Tutto. Egli invia i Dodici e ordina loro di non prendere niente per il viaggio, eccetto un bastone (nel quale è adombrato il legno della croce, unico sostegno del seguace di Cristo); non pane, né bisaccia, né denaro… (cfr. Matteo 10,9-10). Devono essere ricchi solamente del messaggio di pace che annunciano in ogni città e in ogni casa, dove hanno diritto a essere mantenuti finché è necessario, finché riprenderanno il viaggio per andare a evangelizzare altre persone.
Gesù non ci chiede di spogliarci di tutto
La carità proposta da Cristo ci chiede di rivestire chi è nudo. Per fare questo però ci sarà richiesto spesso di abbassare, ridimensionare, cambiare il tenore della nostra vita, per permettere agli altri di alzarlo.
Inoltre, Gesù non parla di una scelta ascetica individuale, ma di un progetto collettivo. Un individuo non cambia la società: occorre che tante persone si mettano d’accordo per uno stile di vita più sobrio, gareggiando a vicenda nel mostrare l’esempio di Cristo che “da ricco che era, si è fatto povero” (2Corinzi 8,9) perché noi tutti diventassimo come Lui dei “signori”, vale a dire: persone che, avendo dei beni materiali, li fanno circolare a comune vantaggio.
I Padri della Chiesa hanno compreso bene questo messaggio di Cristo, da loro spiegato così: “Non è detto ‘beati i poveri’, ma beati coloro che hanno voluto diventare poveri a causa della giustizia” (Clemente d’Alessandria). Allora i poveri sono coloro che volontariamente sono disposti a condividere quello che hanno e quello che sono con chi non ha e con chi non è. Coloro che volontariamente, per amore (cioè per lo Spirito), decidono di condividere quello che hanno, sono beati perché di essi si occupa Dio: precisamente questo è il significato dell’espressione “perché di essi è il regno dei cieli”.
“Il regno dei cieli” non indica necessariamente l’Aldilà
Gli Ebrei non nominano mai Dio: ricorrono a perifrasi. Il regno dei cieli, cioè il regno di Dio, è qui sulla terra. A Gesù interessa la pienezza dell’uomo nella presente esistenza. L’Aldilà non sarà che una continuazione e una conseguenza di aver trovato Dio qui, in questo mondo.
La scelta volontaria della povertà porta immediatamente a godere del “regno”; non si parla di futuro, ma di presente: “… di essi è il regno dei cieli”. Io mi fido, mi dono, e il Signore si dona a me. Non c’è senso di privazione in questo, ma solo di pienezza interiore.
San Basilio, Padre della Chiesa, dice: “La ricchezza condivisa è come un fiume che benefica tutti. La ricchezza tenuta per sé è come un fiume che è arrestato. L’acqua diventa marcia e fa disastri”.
La ricchezza elargita produce vita. Gesù ci chiama ad arricchirci di ogni valore per condividerlo, per innalzare il livello generale, per gustare la beatitudine riservata a chi ascolta il Signore: “Si è più beati nel dare che nel ricevere!” (Atti 20,35). Tutto ciò è stato gioiosamente vissuto dal poverello d’Assisi.
San Francesco
È uno dei santi più conosciuti in tutto il mondo, anche là dove ancora non è praticata la religione cristiana. La sua persona, la radicalità del suo messaggio riguardo alla povertà e il suo essere emblema di pace hanno conquistato il cuore di tante persone che aspirerebbero a essere come lui, così simile al Dio che da ricco si è fatto povero, per rendere noi ricchi del suo messaggio di salvezza.
Francesco, sposando “madonna povertà”, vivendo radicalmente la prima delle Beatitudini, ha messo in pratica tutte le altre. Perché le Beatitudini sono tutte collegate tra di loro e tutte dipendono dalla prima: se uno è povero, sarà capace di essere mite che, nella mentalità ebraica, significa “essere docile all’ascolto”. Chi è povero e mite avrà un cuore grande come il mare, sarà quindi misericordioso. Povero, mite e misericordioso, sarà consolato nel pianto: quando cioè soffre perché il Padre non è riconosciuto come nostro Dio, Cristo non è sentito come Fratello universale e lo Spirito Santo, che è Amore, non è amato. Quando poi il povero sarà perseguitato, benedirà il Signore che gli dà la forza di porgere l’altra guancia. Perdonando, diventerà un operatore di pace. Pace che non è qualche cosa, ma Qualcuno: Cristo nostra pace.
Povertà, mitezza, misericordia, perdono… Valori riassumibili nel comandamento nuovo dell’amore, che porta il credente a passare dalla ricerca di sé alla perdita di se stesso. “Perdere”, in senso biblico, significa spendersi per un grande ideale e saper donare tutto per amore. Perdersi per diventare puro dono, per diventare amore. Per diventare Dio.
Valentino Salvoldi