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“Sei tu il Messia…?”

Terza domenica di Avvento anno A 2022

(Matteo 11,2-11) “Giunga a te, Signore, il mio grido”

Dio ci educa domandando

La prima parola che Dio rivolge all’uomo – nella prima pagina della Bibbia – non è un ideale morale o un comandamento, ma una domanda forte e discreta al tempo stesso: “Adamo, dove sei?”. Che significa: “Va tutto bene? Sei contento? Ti stai realizzando?”. Di fronte alla risposta: “Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”, il Creatore pone un’altra domanda: “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo?”. Come a dire: “Per me sei bello così come sei, perché hai paura di me?”.

La terza domanda di Dio all’uomo, sempre all’inizio del libro della Genesi, è per Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”… E così via; di domanda in domanda, Dio apre gli orizzonti al suo popolo. Il Signore domanda, perché sa che questo è il metodo migliore per collaborare con l’uditore e aiutarlo, lasciandogli la libertà di scegliere la strada che vuole.

Ci sono domande poste per far emergere la verità e domande che esprimono un grande dolore: “Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondimi” (Michea 6,3).

Ogni essere umano riceve da Dio tutto quello che serve per essere contento, per crescere in sapienza e grazia, per curarsi moralmente e spiritualmente. Tutto abbiamo in noi per adorare e amare, per cui Dio ci accosta con discrezione ponendo quelle domande che servono per farci giungere alla verità (metodo che Socrate chiamerà “maieutica”: l’arte del far nascere un essere umano). 

Gesù si mette sulla stessa lunghezza d’onda del Padre: a dodici anni va al tempio per porre domande ai sapienti interpreti della Legge. Alla domanda di sua madre, che vorrebbe capire perché non sia stato sensibile al dolore di Giuseppe e suo, costringendoli a tre giorni di angosciosa ricerca, Lui risponde con un’altra domanda (metodo tipico dei Gesuiti…): “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Luca 2,49).

I Vangeli riportano 217 domande di Gesù, sintetizzabili in quelle che Giovanni pone all’inizio e alla fine del Vangelo: “Che cosa cercate?. Il cammino della fede porterà a interrogarsi su “Chi cercate?. Domanda geniale, se è vero quanto afferma Oscar Wilde: “A dare risposte sono capaci tutti, ma a porre le vere domande ci vuole un genio”.

In questo contesto possiamo intuire il messaggio della terza domenica d’Avvento, chiamata anche “domenica della gioia”, in vista della prossimità del Natale. Giovanni Battista, che si trova in carcere, invia i suoi discepoli a domandare a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Lui che aveva trascorso la sua vita nel deserto, per purificare il suo sguardo e renderlo capace di riconoscere il Messia al suo primo apparire, lui che l’aveva indicato presente quale “Agnello che prende su di sé il peccato del mondo” (cfr. Giovanni 1,29), forse ha un momento di debolezza o di tentazione. Ma reagisce ponendo la domanda giusta alla persona giusta. Oppure possiamo anche pensare che Giovanni abbia mandato i suoi discepoli a interrogare Gesù, affinché potessero avere dei criteri per valutare di persona la verità che libera e salva.

E quando i discepoli di Giovanni Battista ritornano dal loro maestro, Gesù riprende il suo stile educativo: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto?”…                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           

Tutto questo intrecciarsi di domande racchiude, probabilmente, un invito che Dio ci fa per insegnarci che pregare è domandare, supplicare e urlare.  Domandare con la certezza di ottenere. Supplicare quando Dio sembra sordo alle nostre richieste: “Fino a quando, Dio? Fino a quando?”. Urlare quando giunge il momento di “stringere i panni addosso a Dio”, come hanno fatto Giobbe, Geremia e tutti i giusti della storia che hanno avuto l’ardire di andare nel deserto a gridare a Dio, per “svegliarlo dal sonno” e supplicarlo d’intervenire, “per onore del suo nome”.

Bella l’immagine del Salmo 42: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?  Le lacrime sono il mio pane giorno e notte, mentre mi dicono sempre: ‘Dov’è il tuo Dio?’”. Bella e intensa quell’immagine, anche se non esprime la forza del testo ebraico, là dove non si parla di “anelito della cerva”, ma di urlo. Si tratta del grido straziante che l’animale emette nel deserto quando cerca l’acqua allo wadi e, trovandolo asciutto, volge il capo in alto ed emette un urlo che fa rabbrividire, anche perché ferisce lo sconvolgente silenzio del deserto.

Lacrime conservate negli otri in cielo (cfr. Salmo 56,9)

Presto al mattino, quando le strette vie sono ancora deserte, passeggio tra il minareto e il campanile meditando e pregando, a Stone Town, nello Zanzibar. Questa è l’isola delle spezie e dei profumi, con una popolazione completamente musulmana, in “festa” per il Ramadan. Il digiuno diurno dà a questa gente l’occasione di trascorrere la notte danzando, cantando e familiarizzando con tutti. I bambini schiamazzano di via in via, facendo eco al cantastorie e al suonatore di tamburo, mentre si aspettano i dolci dalle famiglie più ricche.

Recitando poi il breviario, inciampo nel versetto del Salmo: “Let my cry come before you my God” (Giunga a te, Signore, il mio grido). Lo ripeto più volte ad alta voce perché, mentre mi sforzo di concentrarmi sulla mia preghiera, il Muezzin dal minareto sta gridando la sua, il prete cattolico sta invitando i fedeli a cantare forte le lodi mattutine e ogni radio sta trasmettendo, ininterrottamente, il canto del Corano… Tutti si sforzano di invitare Dio a non essere sordo al grido della preghiera. I poveri in questo Paese sono tanti, ma non si lamentano. Basta un pugno di riso, una salsa molto speziata e la salute per gridare, danzando: “Hakuna matata” (Non ci sono problemi). Lo ripetono fino all’esasperazione. E, forse, ci credono anche.

Mi accosta un giovane sacerdote. Aveva partecipato al corso di aggiornamento che avevo tenuto al clero della Tanzania. Vuole approfondire alcuni problemi, in particolare vorrebbe sapere che cosa si può fare per sollevare la popolazione africana da tanta miseria, soprattutto dalla piaga delle guerre tribali e dalla morte per fame. È contento quando affermo che ammiro quei poveri che riescono a essere sereni perché sanno che Cristo è uno di loro e pregano tanto, domandando ogni cosa al Signore. Ma rimane male quando mi vede commosso fino alle lacrime allorché accenno a quei bambini che mi sono morti tra le braccia. In tante tribù africane si insegna ai ragazzi che un uomo non deve mai piangere in pubblico. Mi domanda: “Non sei contento? Hai ricevuto tanti doni dal Signore, hai un posto di grande responsabilità, che cosa ti manca?”.
Forse avrei dovuto rispondere: “Un po’ più di fede che dovrebbe aiutarmi a scacciare ogni timore, ogni paura, ogni tristezza”. Se pregassi di più comunicherei maggiore serenità alle persone che incontro e potrei essere maggiormente d’aiuto a chi è nel bisogno.

La fede! Sempre la fede, manifestata dalla preghiera incessante… Potrebbe sembrare quasi un ritornello, un mantra o un “passe-partout”. Per me, invece, è quanto mi fa vivere. Ma chi non crede? Chi si affida all’energia degli alberi, o va ripetendo la deludente affermazione: “Mah… qualche cosa di strano deve pur esistere” (povero Dio, ridotto a “qualche cosa”!), dove può trovare un’intima felicità o perlomeno la serenità?

Finché si è giovani, forse, si può anche credere di poter fare a meno di Dio. Crescendo, ci si ritiene troppo impegnati per avere tempo per Dio. Mentre ci si prende cura della famiglia si va ripetendo: “Siamo troppo preoccupati per concederci il lusso di cercare anche Dio e di parlargli”. Poi… quando la fede occorrerebbe sempre di più per poter godere della pienezza degli anni e poi prepararsi a morire bene, ecco l’amara conclusione: “Troppo tardi per cercare Dio!”.         

Fede e preghiera. Senza Dio si sperimenta la verità del pesante sospiro di Qohelet: “Vanità delle vanità – dice l’Ecclesiaste – Vanità delle vanità e tutto è vanità” (cfr. 1,2; 12,8). Un giorno senza Dio è come un’estate al mare senza sole, come un insegnante senza alunni, come un innamorato che arde d’amore senza che alcuno se ne avveda. Un giorno con Dio, in preghiera, domandando, supplicando e urlando… appartiene già all’eternità.                                                                                       Valentino Salvoldi

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