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Scaltrezza nel fare il bene

XXV domenica C 2022

Luca 16, 1-13

“I figli di questo mondo verso i loro pari

  sono più scaltri dei figli della luce”.

Il film Amadeus – best seller internazionale e concentrato di forza drammatica – narra la storia di una feroce gelosia, di un’invidia senza requie del musicista Salieri nei confronti di Mozart. La base è leggendaria e probabilmente non vera, ma ha contribuito – ironia della sorte – a far conoscere Salieri. Colpisce il finale del film: l’anziano musicista italiano, logorato dal tremendo tarlo dell’invidia, termina la sua vita su una carrozzella, in un istituto di pazzi, tra i quali passa benedicendo mentre sussurra: “Mediocri, ovunque voi siate, io vi assolvo… io vi assolvo… io vi assolvo… io vi assolvo tutti”.

L’umanità non ha bisogno di facili e generiche assoluzioni. Non le servono persone che giustifichino a buon mercato il limite umano, le mezze misure e la tiepidezza. Ha bisogno piuttosto di maestri di vita, di geni, di artisti e di profeti che la stimolino a volare in alto, a tendere verso mete sempre più elevate e a sviluppare al massimo le potenzialità intellettive, affettive e spirituali.

Persone che ci provochino mettendo sulle nostre labbra questo interrogativo: “Se questo e quello riescono a realizzare il bene, perché non io?”. Se alcune persone sono capaci di compiere opere grandi a beneficio comune, perché io no?

Per invitarci a dare il meglio di noi stessi, a compiere il bene nel miglior modo possibile, Gesù ci provoca con una parabola che sembra proporre l’opposto di quello che Egli ha sempre insegnato. Dal contesto del brano evangelico possiamo però comprendere che Gesù non elogia quel fattore disonesto che, per assicurarsi un futuro tranquillo dopo il minacciato licenziamento, si compera la stima dei debitori del suo padrone. Presenta l’operato di un fattore che trae vantaggio dall’ambigua cultura del suo tempo: l’amministratore anticipava al padrone quello che si aspettava dalla produzione dei suoi campi. Poi si riteneva libero di domandare ai contadini quello che gli pareva giusto o conveniente per lui stesso. Poteva essere generoso, oppure uno strozzino. L’amministratore della parabola, trovandosi all’improvviso in una situazione difficile, invece di aspettare passivamente gli eventi, cerca prontamente una soluzione, mettendola in atto con una discutibile scaltrezza.

Gesù sa che molte persone ricorrono a espedienti disonesti per cavarsela con successo nelle imprese di questo mondo. Riescono a trovare i mezzi necessari per proteggersi le spalle e curare gli interessi economici per sé e per i propri famigliari, anche a costo di danneggiare quanti dalla povertà cadono poi nella miseria. Ecco allora la provocazione del Maestro: i cristiani non dovrebbero agire prontamente, con decisione e senza troppi calcoli facendo tutto ciò che è necessario, per entrare nel Regno dei cieli? Per compiere opere di bene non dovrebbero usare correttamente la ricchezza, che viene definita disonesta perché spesso è frutto di azioni ingiuste, fonte di oppressione per i più poveri? I beni di questo mondo di cui disponiamo non ci appartengono solo temporaneamente? Nei loro confronti dobbiamo considerarci non come padroni ma come amministratori, usandoli per fare del bene a chi ha bisogno di pane e di amore.

In parole più semplici: Gesù ci sprona a usare la nostra intelligenza e le nostre energie nel mettere in pratica le opere di misericordia corporale e spirituale, impegnandoci molto di più di quanto fanno i disonesti per moltiplicare le loro immonde ricchezze.

Possiamo quindi cogliere nella parabola un rimprovero di Gesù a tutti coloro che sono più pronti a salvarsi dai mali mondani che dal male eterno. Rimprovero rivolto a tutti noi che, all’inizio della messa, confessiamo i nostri peccati e poi… uscendo di chiesa, già sul sagrato guardiamo ai peccati degli altri, critichiamo, facciamo battute stupide e quasi compiacenti nei confronti di chi si arricchisce, di chi è furbo, di chi ha successo grazie alla disonesta ricchezza.  

E disonesto è quell’accumulare soldi per se stessi, ignorando chi muore di fame. Accumulare soldi nel produrre e vendere armi. Accumulare soldi e spenderli per prodotti di lusso, mentre in tante parti del mondo ci sono persone che mangiano un giorno sì e un giorno no. E, quando mangiano, è la solita manioca piena zeppa di spezie e di lische macinate di pesci, per illudere lo stomaco togliendo i morsi della fame.  

Stando così le cose, non abbiamo bisogno di falsi maestri che ci diano facili assoluzioni, ma di maestri di vita che non esitino a provocarci come faceva il saggio latino: “Impara o vattene”, o come si esprime l’apostolo Giovanni, che non usa mezzi termini nel farsi voce di Dio che ci ammonisce: “Poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Apocalisse 3,16).

Siccome i “ricchi” in senso biblico non sono disposti ad ascoltare questo linguaggio, concludo con un aneddoto che ho scritto per invitare i poveri a non perdere la speranza nella ricompensa al loro sforzo di tendere all’alto.

 Il fiore che insegna ad amare

Dalle cime del monte era arrivato il messaggio: lassù tra le rocce si celava un fiore che poteva insegnare agli uomini l’amore.

Bisognava andare a coglierlo per apprendere dalla sua umiltà, dal suo profumo e dal suo colore la gioia di volersi bene.

Molti abitanti del villaggio, gravato troppo lo zaino, non riuscirono ad andare avanti e presto tornarono alla certezza della valle. Altri, a metà del cammino, decisero di fermarsi per godere la pace, la bellezza di altri fiori, la maestosità dell’irraggiungibile monte. I primi quindi – i ricchi, che non riuscirono a distaccarsi dai beni materiali – non mossero che pochi passi, perché il peso dello zaino li costringeva a rimanere in basso, ancorati a quelle certezze che non appagano l’animo. E gli altri, in bilico tra il rischio di osare e la tranquillità di un facile cammino, rimasero “a metà” (“né freddi né caldi”, direbbe Dio), scegliendo una vita comoda anziché volare in alto.

Solo due giovani, poveri, partiti senza prendere con sé né cibo, né bisacce, né un secondo paio di scarpe, decisero di arrivare fino alla vetta.

Al tramonto, stanchi, madidi di sudore, giunsero sulla cima del monte e si misero alla ricerca del fiore, già pregustando la gioia di trovarlo. Ma invano si affaticavano: rocce, rocce, solo rocce e neppure una traccia di quel fiore.

Finché, alzato entrambi lo sguardo, i loro occhi si incontrarono. Capirono che il fiore aveva il colore dei loro occhi e discesero a valle con un volto che irradiava la gioia di amare.

                                                               Valentino Salvoldi

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