PREGHIERA “PERICOLOSA”
XVII domenica anno C 2022
“Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli».
Ed egli disse loro: ‘Quando pregate, dite: Padre’” (Luca 11, 1-13)
Anche tutti noi bugiardi sacri?
“Io, bugiardo sacro – sacro perché battezzato e prete, bugiardo perché conosco la mia miseria – voglio contare con voi quanti peccati commettiamo quando recitiamo il Padre nostro, senza che alle nostre parole corrisponda una vita coerente con quanto Cristo ci ha insegnato”. Con simili parole iniziò un’omelia, in commento al Padre nostro, Erasmo da Rotterdam:prete cattolico, dotato di un grande spirito profetico, contemporaneo di Lutero. Condivideva alcune idee del padre del protestantesimo riguardo alla necessità di riformare la Chiesa, ma era altresì convinto che questa si sarebbe purificata, rinnovata e ringiovanita, a patto che i cattolici sentissero la necessità di purificare, rinnovare e convertire se stessi.
“Bugiardi sacri”? Se noi dovessimo guardare alla nostra condizione e ai nostri meriti, non saremmo mai nella disposizione giusta per pregare con invocazioni tanto profonde e belle – ma altrettanto impegnative e compromettenti – come quelle del Padre nostro. Confrontandoci con esse facciamo il nostro esame di coscienza, non certo con lo scopo di rovinare una preghiera così bella mostrandone la “pericolosità”, ma con l’intento di impegnarci a chiedere perdono a Dio prima di recitarla, e a invocare da Lui la forza di condurre un’esistenza coerente con le parole pronunciate.
Peccare recitando il Padre nostro?
Ecco i peccati che possiamo commettere se c’è un divario tra preghiera e vita, se siamo credenti ma non credibili, se proclamiamo a parole ciò che non corrisponde alla nostra condotta morale:
- Chiamiamo Dio “Padre” e non ci comportiamo da figli.
- Lo invochiamo come “Padre nostro”, ma non ci consideriamo fratelli di chi avrebbe bisogno di noi per continuare a vivere. Di chi muore di fame. Fame di pane e fame di amore.
- Diciamo “che sei nei cieli” e lo invitiamo a restare lassù, a non obbligarci a cercarlo sul viso di ogni essere umano, soprattutto sul volto dei più poveri della terra. Sul volto dei sofferenti, che sono “la carne stessa di Cristo”.
- Non ci preoccupiamo che il suo nome sia ritenuto santo, perché vogliamo che il nostro nome s’imponga.
- Non cerchiamo il suo regno, ma vogliamo ogni genere di potere sulla terra, per dominare le coscienze o sfruttare le risorse altrui.
- Non siamo disposti a compiere la sua volontà, anzi, gli imponiamo la nostra… ed Egli deve adattarsi ai nostri piani e fare i conti con le nostre deviazioni.
- Chiediamo il nostro pane, ma ognuno consuma il proprio, disinteressandosi della fame altrui.
- Sottoscriviamo la nostra condanna nel chiedere che Dio ci perdoni come noi perdoniamo agli altri.
- Vorremmo uscire illesi dalle tentazioni, ma nel momento della prova restiamo soli perché ci rifiutiamo di domandare aiuto a Dio e ai fratelli.
- A parole chiediamo di essere liberati dal male, mentre siamo noi a cercare il “male”, perché ci appare più interessante e attraente del bene.
“Misericordia” è il nome di Dio
Benché questa sia spesso la nostra condizione, non dobbiamo disperarci. Dall’apostolo Giovanni riceviamo la certezza che il nome di Dio è “Misericordia”: “Rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3,19-20). Infinita è la sua misericordia. Questo, però, non deve portarci a posporre all’infinito la decisione di convertirci. Siamo continuamente chiamati a uscire dalla mediocrità e a vivere coerentemente l’ideale proclamato nel Discorso della montagna: essere misericordiosi e perfetti come il Padre.
E nel cammino verso la perfezione, giova ricorrere a Lui con una preghiera paragonabile a una lotta. Mi riferisco all’episodio in cui Dio, al guado del fiume Iabbok, durante la notte ingaggia una lotta, un corpo a corpo, rotolandosi in quella polvere che divinizza l’uomo e umanizza Dio (cfr. Gen 32,23-32). Lotta il Signore con noi perché vuole essere al primo posto nella nostra esistenza. Lotta per addestrarci ad affrontare con coraggio le prove della vita. Lotta per rigenerarci come nuove creature alle quali cambia il nome: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio” (Gen 32,29). Lotta perché sa che noi saremo felici quando ci arrenderemo e ci lasceremo condurre in un luogo silenzioso: davanti al Santissimo, in un angolo della stanza, nella quiete dei monti o sulla spiaggia, lontani dal chiacchiericcio.
E pure noi facciamo della nostra preghiera una lotta, convinti che ciò fa piacere al Signore, che è contento quando “gli stringiamo i panni addosso”, quando la nostra sofferenza si trasforma in un urlo: “Fino a quando, Dio? Fino a quando?”. L’hanno detto i profeti, l’hanno ribadito i Salmi, l’ha gridato Giobbe, mentre giaceva sul letamaio.
Pregare significa cogliere ciò che c’è di essenziale a questo mondo, presentarlo al Signore e fruire – sia pure in mezzo a tante sofferenze – di quell’intima pace che è concessa a chi accoglie l’invito a non moltiplicare le parole quando ci rivolgiamo a Dio, ma a riassumerle nella preghiera che è la sintesi di tutto il Vangelo: Padre. Padre nostro.
Valentino Salvoldi