Per globalizzare la speranza
Di ritorno da un periodo di lavoro nel Malawi, un trentenne mi scrive: “Per prepararmi al primo impatto con quel Paese africano, avevo letto il suo libro Sfida africana. La povertà dignitosa del Malawi. Lei racconta solo cose belle, mentre io ho visto prevalentemente cose brutte, soprattutto l’enorme differenza tra i pochi ricchi e i molti poverissimi. Inoltre, i poveri non mi sembrano così buoni e dignitosi come lei li rappresenta”.
Ho scritto quel libro circa quarant’anni fa. Nel frattempo la situazione, lì come ovunque, è peggiorata. La globalizzazione della speranza – assieme alla necessità di uno sviluppo che rispetti l’ambiente – è un ideale che l’uomo di fede deve tenere sempre vivo in tutti. E questo va fatto senza lasciarsi schiacciare dal senso d’impotenza, nonostante siano gravi – sia in Africa che in Asia – i risvolti negativi della globalizzazione. Li aveva già intravisti Paolo VI che, di fronte all’ostinata avarizia dei ricchi, non ha esitato a invitarli a temere “il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili” (Populorum progressio, n. 49).
È proprio in questa situazione che il cristiano, basandosi sulla follia evangelica, è chiamato a scommettere sulla necessità di dare fiducia ai popoli impoveriti, affinché prendano sempre più coscienza dei diritti e li difendano – vogliamo sperare, per il bene di tutti – in modo non violento.
Le ribellioni, le uccisioni e le violenze che vengono perpetrate in molte parti dell’Africa – oltre alla tragica situazione delle tensioni tribali e razziste – rivelano la consapevolezza che i poveri non sopportano più di essere privati dei loro diritti, dopo aver preso coscienza di come vivono gli occidentali.
Molti asiatici, invece, stanno soffrendo per quel tipo di povertà consistente nella mancata consapevolezza di avere dei diritti. Anche là dove sono state abolite le caste, chi appartiene a una classe inferiore si sente destinato solo a servire, in silenzio. Non può aspirare a elevarsi di grado. Ad esempio, chi guida il risciò sembra uno schiavo medioevale, con quella gonna legata ai fianchi, il turbante per detergere il sudore, e tanta fatica per guadagnare venti centesimi per corsa. Venti centesimi da condividere con il padrone del risciò, che fa affari sfruttando quei poveretti che aprono la bocca solo per chiedere quei pochi spiccioli. Per non parlare poi delle mamme che, completamente coperte – appunto perché donne… – anche quando l’afa toglie il respiro, lavorano dieci ore al giorno trasportando sulla testa terra, sassi e acqua, per settanta centesimi. Il necessario per comperare due chili di riso.
A Dacca (Bangladesh), al termine del corso tenuto nel Seminario nazionale nel 2018, devo esaminare gli studenti di teologia. Come prima domanda, chiedo a tutti quale sia l’argomento che più li ha interessati. Il tema che più li colpisce e affascina è proprio quello della povertà: Gesù, amico dei poveri, nei Vangeli sinottici. I seminaristi provengono dalle zone tribali o sono convertiti dall’Induismo. Sono poveri. All’inverosimile ripetono una frase che ho pronunciato in classe: “Chi vive la povertà, non solo fa la scelta che ha fatto Cristo, ma sceglie Cristo stesso”. E mi citano pure un’altra frase, che avevo sentito nella miserabile periferia di Nairobi: “I poveri non si disperano, né commettono suicidio, perché sanno che Cristo è uno di loro”.
Valentino Salvoldi